Nel 2014 abbiamo lasciato la storica sede di Palazzo Marignoli

Quasi ottant’anni di storia della Sala Stampa Italiana sono stati magistralmente condensati dall’allora suo Presidente, Gino Corigliano, in un ricordo scritto per l’Agenda del Giornalista edizione 1995, che qui riproponiamo:

Roma – Piazza San Silvestro – da sin. Palazzo Marignoli, Chiesa di San Silvestro, Palazzo Poste Centrali, Palazzo Marini (uffici della Camera dei Deputati)

Sala d’aspetto per i corrispondenti di giornali, come grandi e particolari utenti del telefono dopo che del telegrafo, comunemente intesa (e da qualche anno anche giuridicamente) Sala Stampa. Quella di San Silvestro, quella vera, dove hanno la loro sede le redazioni romane dei quotidiani che si pubblicano fuori Roma.

Per averne l’accesso e l’uso dei servizi il quotidiano deve nominare un capo ufficio romano di corrispondenza con eventuali redattori a norma del contratto giornalistico. La gestione della Sala Stampa è fatta dai corrispondenti con uno statuto che regola l’uso di questo servizio pubblico con uguali diritti per tutti. C’è un presidente e un consiglio direttivo, eletti ogni due anni. Tutto qui, semplicemente e limpidamente.

Ancor oggi la Sala Stampa nel Ministero delle Poste è inquadrata nella direzione del telegrafo. E nell’era di questo i corrispodenti davano da trasmettere allo sportello stringati messaggi con solo l’essenziale.

Grande scuola di sintesi senza lo spreco di aggettivi di oggi, dicevano i vecchi che l’avevano vissuta o l’avevano sentita.

Nel primo dopoguerra tutto già andava per telefono e i corrispondenti nella sala d’aspetto dei telefoni al Palazzo della Posta passavano le ore in attesa delle comunicazioni con la città in cui si pubblicava il giornale; c’era la messa in nota e poi, dopo un periodo imprecisato – mai poco e a volte molto – ottenevano la linea. Dal centralino un fattorino chiamava il giornale e dava il numero della cabina: Gazzetta del Popolo alla 9; Mattino alla 3. La Sala Stampa poi, dopo qualche anno passò al primo piano di Palazzo Marignoli negli ampi saloni collegata con il Circolo della Stampa, sontuoso ed immenso: Mussolini, è vero, imbavagliava la stampa, ma la blandiva pure con molte attenzioni.

la messa in nota il corrispondente la faceva appena arrivato: nell’attesa scriveva il pezzo che avrebbe dettato in cabina (aperta per avere aria) il trombettiere con voce alta, dizione chiara e i punti e punti a capo, solo questi. La compitazione dei nomi o delle parole straniere dai trombettieri non timorati di Dio – ce n’era più d’uno – era fatta non con i nomi delle città comincianti con la vocale o consonante voluta, ma con le parolacce a voce tonante o melliflua.

E così per la C non dicevano Como o Catania, per la F non Firenze e per la O non Otranto: dicevano altro.

E questa era del trombettiere con gli stenografi durò fino agli anni ’50. Nell’attesa della chiamata i corrispondenti scrivevano, a mano i più, pochi a macchina; se la chiamata arrivava prima che avessero finito, concludevano a braccio.

Enrico Mattei era uno dei giornalisti che a braccio spesso lavorava per più giornali – dettava un’intera corrispondenza politica o un commento che poi veniva giornalisticamente meglio di quelli scritti e limati perché si sentiva butatto giù di getto, immediato. Almeno il suo e quello di qualche altro. Sono finiti i trombettieri ed anche i giornalisti a braccio e c’è l’inflazione degli aggettivi. Tutto cambia, ma resta ancora qualcosa dell’atmosfera della vecchia Sala Stampa come scambi di notizie o solo di voci, di interpretazioni e anche di bufale per gioco – tanto più divertenti quanto più pesanti – tra giornalisti politici di varia matrice ideologica, di diversa formazione e diverso riferimento territoriale. Il tutto in un agitarsi, andare e venire tra urla e sghignazzate, formalmente senza distinzione di testata e di rango per i tavoli l’uno sull’altro, in stanzoni con più redazioni dove i direttori, nella capitale nelle giornate importanti – Ansaldo, Signoretti, Caputo, Russo, Spadolini, Bartoli e altri – venivano per scrivere il commento tra “i rumori, le voci, l’incrociarsi delle notizie e delle smentite in un frastornato labirinto”. Come ne ha scritto Domenico Bartoli.

E Montanelli: “specie ai tempi del suo debutto era qualcosa di mezzo tra la fureria, la taverna, il bordello”; “disordine, chiasso, viavai di telefoni che squillavano, voci che si sovrapponevano fino a diventare urla, un linguaggio e scherzi da Cena delle Beffe”. Uno degli scherzi d’obbligo per il personaggio importante che veniva in visita era di attaccargli ai tacchi due grandi speroni di carta. Bruno Profili, allora agile giovanetto, li attaccò a Mussolini che gradì poco, ma dovette per spirito di vecchia coleganza abbozzare.

Oggi la Sala Stampa, per decenni e decenni Sala d’aspetto, è riconosciuta tale dalla legge, non è più al primo ma al terzo piano di Palazzo Marignoli, senza i grandi saloni ma con stanze e stanzette per le redazioni, con videoterminali e telescriventi a iosa per le agenzie, con servizi d’ogni genere inappuntabili. E quei corrispondenti, che credono che l’importanza si debba dare anche nelle impressioni visive, hanno poltrone e divani per distinzione di rango e di testata. Ed è così pulita ed ordinata, asettica come una corsia di un buon ospedale. Riflette i tempi di tecnologia avanzata e di giornalisti con la corta, sindacalizzata e burocratizzata. Ma resta sempre, lo abbiamo detto sopra, qualcosa dell’atmosfera della vecchia Sala Stampa che di tanto in  tanto si manifesta nei grandi corridoi in una caciara per opinioni contrastanti o in una sghignazzata per una bufala, sia pure giocata con tecnologia avanzata di videoterminale o telescrivente.

Finché dura: ché la prospettiva non è felice. C’è la tendenza degli editori dei giornali piccoli e medi ad abolire le redazioni romane, a servirsi di agenzie di servizi per le corrispondenze romane (così come già fanno da anni per le corrispondenze delle grandi capitali straniere: Bonn, Parigi, Londra, Washington): un servizio uguale, omogeneizzato per città che restano diverse con interessi che diventano con lo sviluppo e l’articolazione dell’economia più diversi. Ma con costi molto inferiori.

Anche nei giornali non è più tempo di vestiti su misura, ma di prêt-à-porter; non è tempo di prodotti secondo le particolari esigenze, ma di prodotti anonimi, sia pure decorosamente anonimi.

Forse, ma non è certo. Ché la unifornità finirebbe per rendere inutili le diverse testate a vantaggio delle più forti.

Gli editori dei piccoli e dei medi giornali per sopravvivere dovranno mettersi gli occhiali per vedere lontano non vicino, occhiali che ne curino la miopia: i bassi costi oggi potrebbero essere alla lunga mortali.

Ma lo capiranno in tempo?

Gino Corigliano

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