Nel 2006 la storia della Sala Stampa è stata riassunta anche dalla collega Gabriella Bellucci, collaboratrice – quale corrispondente da Roma – del quotidiano “La Sicilia” di Catania, nella tesina per l’esame di Stato da giornalista professionista. Ne proponiamo il testo integrale:
Da quasi cento anni la storia di Palazzo Marignoli, in Piazza San Silvestro nel cuore di Roma, incrocia direttamente la storia del giornalismo italiano. Nelle stanze del piano nobile hanno avuto sede prima il Sindacato dei cronisti romani (1909), poi il Circolo della stampa e, infine, a partire dagli anni del regime fascista,la Sala stampa italiana, struttura messa a disposizione dal ministero delle Poste e destinata ad ospitare generazioni di corrispondenti fino ai giorni nostri. I mutamenti della professione svolta tra quelle mura possono offrire un’inedita chiave di lettura su come è cambiato il modo di fare informazione nel nostro Paese.
E’ a Palazzo Marignoli che tornò in vita la Fnsi, sciolta nel 1925 per effetto delle leggi fasciste. Il 26 luglio 1943, a sole ventiquattr’ore dalla caduta di Mussolini sfiduciato dal Gran Consiglio, un gruppo di ventisette giornalisti si riunì al Circolo della stampa per deliberare, con atto formale, la ricostituzione del sindacato nazionale. Quello dei cronisti romani rifiori il 27 gennaio 1946, sempre nella stessa sede, dove pochi mesi prima (14 ottobre 1945) gli editori aderenti all’Ansa celebrarono l’assemblea che sancì la dimensione unitaria e nazionale dell’agenzia. A Palazzo Marignoli, dunque, si riaffermarono i principi della riconquistata libertà di stampa e prese il via la riorganizzazione del giornalismo italiano.
Negli anni successivi soltanto la Sala stampa restò nella sua sede d’origine. Fu in quegli uffici di pertinenza del ministero delle Poste che la volle Mussolini per dare una collocazione più prestigiosa alla cosiddetta “Sala d’aspetto per i corrispondenti”, situata fino ad allora in una diversa postazione di piazza San Silvestro.
Col trasferimento al secondo piano di Palazzo Marignoli, le modalità di lavoro rimasero le stesse: sempre di sala d’aspetto si trattava, con le lunghe ore di attesa dovute alla messa in nota presso il centralino per anticipare alle redazioni centrali le notizie romane e dettare poi, alla successiva chiamata, i pezzi scritti a penna o improvvisati a braccio dai più abili. “Enrico Mattei – ha scritto Gino Corigliano in una memoria sulla Sala stampa – era uno dei giornalisti che a braccio dettava un’intera corrispondenza politica o un commento, che poi veniva giornalisticamente meglio di quelli scritti e limati perché si sentiva buttato giù di getto, immediato”.
Per la dettatura, i più si avvalevano dei trombettieri, giovanotti che con voce alta e dizione chiara scandivano le parole a beneficio degli stenografi. E, a volte, nel divertimento di chi ascoltava, in quel clima goliardico che caratterizzò a lungo la Sala stampa e, più in generale, l’ambiente giornalistico. Ricorda Corigliano: “La compitazione dei nomi e delle parole straniere dai trombettieri non timorati di Dio – ce n’era più d’uno – era fatta non con i nomi delle città comincianti con la vocale o la consonante voluta, ma con le parolacce a voce tonante o melliflua”.
Atmosfera informale, spirito scanzonato, grandi discussioni e solenni litigate condividevano decine di giornalisti, diversi per matrice ideologica e formazione culturale, costretti a lavorare gomito a gomito sulle scrivanie che riempivano le stanze aperte ventiquattr’ore su ventiquattro. C’è una miniera ricchissima – e in molti casi spassosa – di aneddoti su personaggi di varia umanità, sulle discettazioni raffinate dei più colti, sulle trovate da caserma o gli episodi licenziosi che provocavano sghignazzate a non finire. Scrisse Indro Montanelli, che della Sala stampa fu tra i più illustri frequentatori: “Specie ai tempi del suo debutto era qualcosa di mezzo tra la fureria, la taverna e il bordello”. E ancora: “Disordine,chiasso viavai di telefoni che squillavano, voci che si sovrapponevano fino a diventare urla, un linguaggio e scherzi da Cena delle Beffe”.
Gli scherzi, appunto, erano all’ordine del giorno. Uno dei più in voga consisteva nell’attaccare due speroni di carta alle scarpe dell’ospite di turno.
All’inizio del Ventennio, tra gerarchi e ministri, andò in visita anche Mussolini: gli speroni non furono risparmiati nemmeno al Duce del Fascismo che fu costretto ad accettare l’ironia, se non altro in nome della vecchia colleganza.
Sul finire degli anni ‘50, trombettieri e stenografi cominciarono a sparire, soppiantati da una tecnologia in rapido sviluppo che, nel bene e nel male, avrebbe condizionato molto il lavoro giornalistico. Radiostampa fu il sistema di trasmissione che si affermò a lungo, almeno fino ai primi anni ‘80, quando i fax e, successivamente i computer, mandarono in pensione centralinisti e telegrafisti. Con Radiostampa i pezzi venivano trascritti dai tecnici su strisce di carta con una sorta di alfabeto Morse che veniva trasmesso e decifrato presso le redazioni centrali. Cosi si risparmiava tempo e il lavoro dei giornalisti trovava una nuova razionalizzazione. Con buona pace dei tecnici che, a volte, erano costretti a scervellarsi per decrittare la grafia degli irriducibili alla macchina da scrivere.
I giornalisti lavoravano fuori dalla Sala stampa per buona parte della giornata, negli anni in cui le agenzie – trasmesse con le telescriventi- non coprivano capillarmente l’informazione come ora. Era il tempo in cui si andava a caccia di notizie direttamente alla fonte, in Parlamento, in tribunale, in questura, negli ospedali, sul posto di un fatto di cronaca. Qualcuno campava pure di rendita, scopiazzando in serata i pezzi degli altri 0 cambiando solo “l’attacco” perché, in fondo, gli articoli che uscivano da Palazzo Marignoli finivano sui giornali locali e nessun lettore poteva accorgersi del “plagio”.
Si finiva di lavorare a tarda notte e spesso si andava a cena insieme, nei tempi in cui al centro di Roma si potevano trovare ristoranti aperti anche in orari che sembrano ora proibitivi. Lo spirito di gruppo era forte ma non esclusivo rispetto ai nuovi arrivati. Anzi, secondo una tradizione che si é persa negli ultimi anni, ogni giornalista esordiente veniva presentato a tutti i colleghi che organizzavano una cena di benvenuto.
Di quotidiani, negli anni gloriosi della Sala stampa, ne sono transitati parecchi – soprattutto provinciali ma anche nazionali come La Stampa e il Corriere della Sera – perché avere una redazione o anche solo un appoggio a Palazzo Marignoli, nel cuore dell’informazione politica, era anche motivo di prestigio. Ma la maggior parte degli uffici di corrispondenza è stata via via chiusa a causa del progressivo disimpegno degli editori, sempre più inclini a depennare dai bilanci le voci di spesa percepite come passività: effetto dell’informazione in tempo reale, oltre che della scarsa lungimiranza editoriale. La lista delle testate è lunga: Il Piccolo, L’Ora, Il Giornale di Brescia, L ’Unione sarda, Il Tirreno, Il Giornale di Napoli, La Notte, Il Giornale di Sicilia, Il Roma, La Gazzetta di Parma; ci vorrebbe molto spazio per citarle tutte, cioè almeno una quarantina. Di queste, sono rimaste in attività soltanto La Sicilia, Il Gazzettino, Il Mattino, la Poligrafici Editoriale e una manciata di collaboratori per Il Secolo XIX, La Gazzetta del Mezzogiorno, La Gazzetta del Sud.
A tutti i giornalisti, fissi o occasionalmente di passaggio per Roma, la Sala Stampa offriva (e offre tuttora) la disponibilità dei mezzi necessari per lavorare.
Dal 1981, dopo decenni di consuetudine che aveva sollevato più di un dubbio alla Corte di Conti, é stata inquadrata a livello legislativo con la legge 416 (Disciplina delle imprese editrici e provvidenze per l’editoria), che autorizza il ministero delle Poste e Telecomunicazioni ad “istituire sale stampa, destinandovi appositi locali e proprio personale”. La gestione interna, però, è rimasta in mano ai giornalisti, col proprio statuto, un presidente e un consiglio direttivo. Certo, negli ultimi tempi le attività organizzative si sono ridotte. Dal 1999 è stata eliminata la sala conferenze dove si tenevano convegni, incontri con i politici, conferenze stampa. Palazzo Marignoli non è più il porto di mare che fu. Dal 1997 è stata pure soppressa la copertura notturna: sia per questioni finanziarie, sia per il cambiamento degli orari di lavoro.
Altri tempi quelli in cui si staccava alle tre di notte. Quelli in cui fare il trombettiere rappresentava il primo avvio a una professione che si apprendeva solo sul campo: anche dettare i pezzi altrui era una buona palestra per la formazione di chi aveva stoffa per il mestiere. E di grandi giornalisti che hanno mosso i primi passi o hanno trascorso gli anni brillanti della loro carriera in Sala stampa, Palazzo Marignoli ne ha visti davvero tanti: da Enrico Mattei a Indro Montanelli, da Alfio Russo a Giovanni Ansaldo, da Alberto Giovannini a Giovanni Spadolini, da Vittorio Gorresio a Domenico Bartoli, solo per citarne alcuni. Il merito di tanta ricchezza professionale è stato anche di editori ormai in via d’estinzione. Ora, in tanti giornali non è più tempo di vestiti su misura: si preferisce il prét a porter dei prodotti già confezionati che, proprio perché vanno bene a tutti, forse non si attagliano come si deve a nessuno.
Gabriella Bellucci
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